venerdì 14 agosto 2020

Viganò reinterpreta il Vangelo

 il nuovo Vangelo di Viganò: “il Mio Regno è di questo mondo”

Ho appena finito di leggere una lunga nota di mons.Viganò, in cui egli accusa non solo l’attuale papa, ma anche il Concilio Vaticano II e quindi i papi successivi a Pio XII, di apostasia e di eresia, per aver detronizzato Cristo Re, non riconoscendolo Re (anche) di questo mondo e confinandone la regalità alla fine della storia, all’eschaton.
In particolare egli se la prende con il riconoscimento, fatto dal Vaticano II, della libertà religiosa, che invece, notiamo, fu molto apprezzato da Karol Wojtyla, che ne parlò come di una positiva “rivoluzione”.
 
1) Vorremo evidenziare due errori di Viganò: l’errore fondamentale è non partire dall’esperienza. Infatti egli fa tantissime affermazioni solenni e impegnative, pretendendo di basarle sulla Bibbia. Ma che cosa gli garantisce che la Bibbia sia vera e che lui la interpreti correttamente? La risposta corretta alla prima domanda dovrebbe essere: la mia esperienza umana, da cui dovrebbe scaturire anche il criterio per assicurasi di interpretare correttamente il Testo sacro. Invece Viganò non parte dalla sua esperienza, ma da degli a-priori. Qui sta la radice dei suoi errori.
 
2) Tra i tanti altri errori merita segnalarne un altro: qual è per lui il compito fondamentale del cristiano? Non fare esperienza di fede e proporla personalmente ad altri. Ma mettere in riga il mondo. Mettere in riga quegli assatanati degli esseri umani. Ecco infatti cosa dice:
“Ho scelto questo tema perché credo che, in un certo senso, possa riassumere il punto focale del nostro e vostro impegno di cattolici; non solo nella vita privata e familiare ma anche e soprattutto nella vita sociale e politica.”
Così Viganò rilegge creativamente il processo a Gesù sostenendo che egli fu condannato a morte proprio perché aveva affermato che il Suo Regno è di questo mondo:
“La costituzione del suo Regno [in questo e di questo mondo, chiosiamo] assorbì a tal punto la sua missione che l’apostasia dei suoi nemici approfittò di quest’idea per giustificare l’accusa sollevata contro di lui davanti al tribunale di Pilato: «Si hunc dimittis, non es amicus Caesaris (Se lo rilasci, sei non un amico di Cesare)». Gridarono a Ponzio Pilato: «Chiunque si fa re si oppone a Cesare» (cfr. Gv 19, 12). Convalidando l’opinione dei suoi nemici, Gesù Cristo conferma al governatore romano di essere veramente un Re: «Tu lo dici: Io sono Re» (cfr. Gv 18, 37).”
Dimenticando così che Nostro Signore ha affermato esattamente il contrario, cioè che il Suo Regno non è di questo mondo:
Gesù rispose: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui» (Gv, 18, 36)

venerdì 11 gennaio 2019

Carrón al Corriere: «I sovranismi sono fallimentari. Il cristiano deve vincere la paura»

«I migranti, prima che numeri, sono persone concrete, volti, nomi, storie, aveva detto il Papa a Lesbo». L'intervista al Presidente della Fraternità di CL sul Corriere della Sera (10 gennaio 2019)
Gian Guido Vecchi
«Ricordo l’impressione che mi fece la notizia di un immigrato pakistano: giunto stremato in un centro di accoglienza italiano, incontra un volontario che lo chiama e gli domanda se vuole pasta in bianco o al sugo, carne o pesce. L'uomo scoppia in lacrime, nessuno lo aveva mai chiamato per nome. Un gesto semplice di umanità gli ha fatto cambiare idea su quelli che prima per lui erano solo degli “infedeli”». Don Julián Carrón, scelto dal fondatore Don Luigi Giussani come suo successore, guida Comunione e Liberazione dal 2005.

Ci sono voluti diciannove giorni perché si aiutassero 49 persone lasciate in alto mare. Che sta succedendo, in Europa, se è dovuto intervenire Francesco all'Angelus per scuotere i leader?
«È il segno di una crisi che non è innanzitutto politica o economica ma antropologica, perché riguarda i fondamenti della vita personale e sociale. Uno strano oscuramento del pensiero costringe il Papa a rimettere davanti a tutti la realtà, prima delle idee e degli schieramenti. Già Benedetto XVI ricordava che l'esperienza migratoria rende le persone vulnerabili: sfruttamento, abusi, violenza. Per questo l'attuale pontefice richiama tutti a rispettare l'imperativo morale di garantire ai migranti la tutela dei diritti fondamentali e rispettarne la dignità. Il cristiano riconosce che i migranti hanno bisogno di leggi e di programmi di sviluppo, tanto quanto “di essere guardati negli occhi”, diceva Francesco: “Hanno bisogno di Dio, incontrato nell'amore gratuito”. Allora tutto può cambiare».

Forse il problema è che si parla di numeri, di «clandestini» in astratto...
«È proprio così. Fa parte della nostra riduzione dello sguardo che impedisce di cogliere l'umano. I migranti, prima che numeri, sono persone concrete, volti, nomi, storie, aveva detto il Papa a Lesbo nel 2016. Dovrebbe essere palese ma non lo è più, segno che è andato in crisi il nostro rapporto con la realtà: per questo le sue parole suonano “rivoluzionarie”. Tutto è guardato attraverso filtri che non raggiungono più la persona reale. Il Papa ci indica il metodo: “Si vede bene solo con la vicinanza che dà la misericordia”».

Francesco ha denunciato il riapparire di populismi e nazionalismi che «indeboliscono» il «sistema multilaterale». Perché accade?
«Nel tempo ha prevalso la dimensione universale, un tentativo che ha le sue radici nell'Illuminismo: salvaguardare i valori - persona, vita, famiglia, società - slegandoli dall'appartenenza alla storia particolare che li aveva generati. Alla globalizzazione, espressione ultima del tentativo illuminista, si oppone una concezione di appartenenza nazionalistica. Ma tale reazione non risolve il problema, lo sposta solo in avanti rimandandone la soluzione: un equilibrio corretto tra appartenenza a una storia particolare e apertura all’universale».

Come si può rimediare alla strategia della paura?
«Si può rimediare solo se si trova una vera risposta alla paura. La paura non si vince con la violenza, la chiusura, i muri, tutte espressioni di una sconfitta. La paura è sconfitta solo da una presenza. Ciò che vince la paura del buio in un bimbo è la presenza unica della mamma. Ciascuno dovrà scoprire nella sua vita quali presenze rispondono alle sue paure».

La sfida sovranista, da Bannon a Salvini, inalbera i «valori cristiani». Che può fare la Chiesa?
«È chiamata alla sua missione unica. Essa custodisce il “segreto” della vittoria sulla paura, l'unica Presenza che la vince senza bisogno della violenza. Questa è un'opportunità formidabile per la Chiesa di riscoprire il suo compito: annunciare questa Presenza, renderla testimonianza. Solo lasciandosi investire dalla presenza di Cristo, potrà testimoniare a tutti una modalità di vincere la paura adeguata alle sfide odierne. È il contributo che noi cristiani siamo chiamati a dare: generare uomini e donne non dominati dalla paura, in grado di creare luoghi capaci di accogliere e integrare chi è diverso da noi. Le vie d'uscita di pura reazione sono fallimentari in partenza, anche se nel breve termine possono sembrare vincenti. Manca la prospettiva storica. Abbiamo già assistito a troppe situazioni in cui è diventata dominante una mentalità che non ha retto l'urto del tempo. Staremo a vedere quanto dura questa».

Cosa direbbe ai fedeli sedotti dal sovranismo?
«Che guardino se stessi e vedano se esso risponde alle loro aspettative, quando vanno a dormire e si alzano al mattino. In questo momento drammatico è in gioco ognuno di noi e, quindi, la nostra famiglia, i nostri rapporti, i nostri fratelli bisognosi, la nostra società. Sarebbe un peccato sprecare l’occasione».

domenica 6 gennaio 2019

che cosa hanno visto in cielo i Magi? Un contributo di M.Gargantini

Un "meeting" planetario ha tracciato il percorso dei Magi verso Betlemme

tratto da http://www.gargantini.net per gentile concessione dell'autore

La strada che ancora oggi molti pellegrini percorrono per andare da Gerusalemme a Betlemme è più o meno quella che hanno percorso i Magi 2017 anni fa; si snoda in direzione Sud e all’inizio di dicembre dell’anno 7 a.C. (data sempre più accreditata per la nascita di Gesù) mostrava un fenomeno astronomico singolare, di quelli che accadono circa ogni ottocento anni: tre pianeti, di quelli visibili anche a occhio nudo, nel loro vagare tra le stelle fisse (la parola pianeta significa infatti “errante”) vengono a congiungersi nella stessa posizione (vista da Terra) creando un punto luminoso molto intenso e brillante.
È questo, e non una cometa né una supernova, il segno che ha guidato gli studiosi venuti da oriente fino alla grotta della Natività. Tra le diverse interpretazioni del significato dell’espressione del Vangelo di Matteo “abbiamo visto sorgere la sua stella …”, questa della congiunzione planetaria tra Saturno, Giove e Marte è ormai la più accreditata, confortata da una serie di dati e riscontri astronomici e storici.
Ma già il grande Keplero, all’inizio del Seicento aveva avanzato questa ipotesi, ricordando che in un commentario rabbinico alla Scrittura (quello del rabbino Abarbanel) si diceva che la venuta del Messia sarebbe stata preceduta da una congiunzione fra Giove e Saturno nel segno dei Pesci. Keplero era un abile matematico e dai suoi calcoli aveva stimato la data del meeting planetario tra il giugno del 7 a.C. e il marzo del 6 a.C. I calcoli moderni, sui quali si basano anche semplici simulazioni al computer che ci mostrano il cielo di allora sopra l’area di Gerusalemme, confermano che nel 7 a.C. si sono verificate ben tre congiunzioni di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci: il 29 maggio, il 3 ottobre e il 4 dicembre; nei mesi successivi fino a marzo il fenomeno si è completato con l’inserimento di Marte.
Il susseguirsi di congiunzioni, e non tanto la scia della cometa, segna quindi le tappe del viaggio dei Magi e ciò che è accaduto nel cielo il 4 dicembre ben si accorda con la descrizione di Matteo: la stella che prima li precedeva “si fermò sopra il luogo ove si trovava il bambino”; in effetti in quel giorno i due pianeti erano stazionari per poi invertire il loro moto e separarsi.
Prima dei calcoli moderni, queste congiunzioni sono state osservate e descritte dagli astronomi dei territori medio-orientali, dove erano ben visibili, e sono documentate nelle tavole planetarie egiziane del tempo e nel calendario stellare detto di Sippar, dal nome della sede della scuola astronomica di Babilonia.
Quindi si trattava di un evento celeste noto agli studiosi, quali erano i magi, ma non così evidente “per il grande pubblico”; ma anche questa circostanza rafforza un particolare del racconto evangelico: il fatto cioè che Erode dovesse chiedere una consulenza agli astronomi orientali per decifrare il fenomeno e per avere una conferma della sua singolarità, che portava a una facile e clamorosa deduzione: un segno così preannunciava la nascita di un re potente e generoso e l’inizio di una nuova era.
E la questione della cometa? Nei primi secoli del cristianesimo non se ne parla, finché compare sopra la capanna nella celebre natività affrescata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova nel 1303. Non è tanto azzardato supporre che l’idea sia venuta al grande artista dall’emozione ancora viva dell’osservazione della cometa di Halley che era stata ben visibile nei cieli europei nel 1301. La Halley è una delle comete più affezionate alla nostra Terra: ritorna ogni 75 anni circa e se ne sono documentati con precisione gli ultimi 41 passaggi. Tale documentazione esclude però che potesse essere lei la annunciatrice del Messia: infatti il suo ultimo passaggio in epoca precristiana è avvenuto nel 12 a.C. e il successivo nel 65 d.C. Inoltre, nessuna della altre numerose fonti di osservazioni astronomiche antiche, da quelle babilonesi a quelle cinesi, segnala passaggi cometari in quegli anni.
Resterebbe l’ipotesi della supernova, cioè di quelle improvvise esplosioni di stelle massicce giunte alla fase finale della loro vita che diventano molto luminose e proiettano nello spazio i materiali preziosi per l’evoluzione della storia cosmica. C’è da dire che se in area mesopotamica fosse apparsa una supernova difficilmente gli astronomi babilonesi l’avrebbero ignorata; invece non ve n’è traccia nei loro resoconti: solo alcune cronache cinesi accennano a una stella “nova” apparsa nel 5 a.C. ma con pochi altri dettagli. Inoltre una supernova è un evento collocato in una posizione ben precisa nella volta celeste e ha poco le caratteristiche di “messaggero” che si sposta per tracciare una strada.
Acquista perciò sempre più forza l’ipotesi della congiunzione planetaria. Che, come ogni ipotesi scientifica, non può avere nessuna pretesa oltre a quella di una descrizione, peraltro sempre perfezionabile, dei fenomeni naturali. Una conoscenza scientifica più precisa delle circostanze fisiche nelle quali si è manifestato l’evento della nascita di Cristo non toglie nulla al carattere straordinario e soprannaturale di quell’avvenimento, anzi concorre a indicarne la concretezza di fatto storico, incontrabile nella storia, e rende ancor più significativo il gesto genuinamente umano dei Magi: “… siamo venuti per adorarlo”.

Mario Gargantini
giovedì 6 gennaio 2011

giovedì 27 dicembre 2018

papa Francesco - Omelia della messa di mezzanotte di Natale 2018

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Lunedì, 24 dicembre 2018


Giuseppe, con Maria sua sposa, salì «alla città di Davide chiamata Betlemme» (Lc 2,4). Stanotte, anche noi saliamo a Betlemme per scoprirvi il mistero del Natale.
1. Betlemme: il nome significa casa del pane. In questa “casa” il Signore dà oggi appuntamento all’umanità. Egli sa che abbiamo bisogno di cibo per vivere. Ma sa anche che i nutrimenti del mondo non saziano il cuore. Nella Scrittura, il peccato originale dell’umanità è associato proprio col prendere cibo: «prese del frutto e ne mangiò», dice il libro della Genesi (3,6). Prese e mangiò. L’uomo è diventato avido e vorace. Avere, riempirsi di cose pare a tanti il senso della vita. Un’insaziabile ingordigia attraversa la storia umana, fino ai paradossi di oggi, quando pochi banchettano lautamente e troppi non hanno pane per vivere.
Betlemme è la svolta per cambiare il corso della storia. Lì Dio, nella casa del pane, nasce in una mangiatoia. Come a dirci: eccomi a voi, come vostro cibo. Non prende, offre da mangiare; non dà qualcosa, ma sé stesso. A Betlemme scopriamo che Dio non è qualcuno che prende la vita, ma Colui che dona la vita. All’uomo, abituato dalle origini a prendere e mangiare, Gesù comincia a dire: «Prendete, mangiate. Questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Il corpicino del Bambino di Betlemme lancia un nuovo modello di vita: non divorare e accaparrare, ma condividere e donare. Dio si fa piccolo per essere nostro cibo. Nutrendoci di Lui, Pane di vita, possiamo rinascere nell’amore e spezzare la spirale dell’avidità e dell’ingordigia. Dalla “casa del pane”, Gesù riporta l’uomo a casa, perché diventi familiare del suo Dio e fratello del suo prossimo. Davanti alla mangiatoia, capiamo che ad alimentare la vita non sono i beni, ma l’amore; non la voracità, ma la carità; non l’abbondanza da ostentare, ma la semplicità da custodire.
Il Signore sa che abbiamo bisogno ogni giorno di nutrirci. Perciò si è offerto a noi ogni giorno della sua vita, dalla mangiatoia di Betlemme al cenacolo di Gerusalemme. E oggi ancora sull’altare si fa Pane spezzato per noi: bussa alla nostra porta per entrare e cenare con noi (cfr Ap 3,20). A Natale riceviamo in terra Gesù, Pane del cielo: è un cibo che non scade mai, ma ci fa assaporare già ora la vita eterna.
A Betlemme scopriamo che la vita di Dio scorre nelle vene dell’umanità. Se la accogliamo, la storia cambia a partire da ciascuno di noi. Perché quando Gesù cambia il cuore, il centro della vita non è più il mio io affamato ed egoista, ma Lui, che nasce e vive per amore. Chiamati stanotte a salire a Betlemme, casa del pane, chiediamoci: qual è il cibo della mia vita, di cui non posso fare a meno? È il Signore o è altro? Poi, entrando nella grotta, scorgendo nella tenera povertà del Bambino una nuova fragranza di vita, quella della semplicità, chiediamoci: ho davvero bisogno di molte cose, di ricette complicate per vivere? Riesco a fare a meno di tanti contorni superflui, per scegliere una vita più semplice? A Betlemme, accanto a Gesù, vediamo gente che ha camminato, come Maria, Giuseppe e i pastori. Gesù è il Pane del cammino. Non gradisce digestioni pigre, lunghe e sedentarie, ma chiede di alzarsi svelti da tavola per servire, come pani spezzati per gli altri. Chiediamoci: a Natale spezzo il mio pane con chi ne è privo?
2. Dopo Betlemme casa del pane, riflettiamo su Betlemme città di Davide. Lì Davide, da ragazzo, faceva il pastore e come tale fu scelto da Dio, per essere pastore e guida del suo popolo. A Natale, nella città di Davide, ad accogliere Gesù ci sono proprio i pastori. In quella notte «essi – dice il Vangelo – furono presi da grande timore» (Lc 2,9), ma l’angelo disse loro: «non temete» (v. 10). Torna tante volte nel Vangelo questo non temete: sembra il ritornello di Dio in cerca dell’uomo. Perché l’uomo, dalle origini, ancora a causa del peccato, ha paura di Dio: «ho avuto paura e mi sono nascosto» (Gen 3,10), dice Adamo dopo il peccato. Betlemme è il rimedio alla paura, perché nonostante i “no” dell’uomo, lì Dio dice per sempre “sì”: per sempre sarà Dio-con-noi. E perché la sua presenza non incuta timore, si fa tenero bambino. Non temete: non viene detto a dei santi, ma a dei pastori, gente semplice che al tempo non si distingueva certo per garbo e devozione. Il Figlio di Davide nasce tra i pastori per dirci che mai più nessuno è solo; abbiamo un Pastore che vince le nostre paure e ci ama tutti, senza eccezioni.
I pastori di Betlemme ci dicono anche come andare incontro al Signore. Essi vegliano nella notte: non dormono, ma fanno quello che Gesù più volte chiederà: vegliare (cfr Mt 25,13; Mc 13,35; Lc 21,36). Restano vigili, attendono svegli nel buio; e Dio «li avvolse di luce» (Lc 2,9). Vale anche per noi. La nostra vita può essere un’attesa, che anche nelle notti dei problemi si affida al Signore e lo desidera; allora riceverà la sua luce. Oppure una pretesa, dove contano solo le proprie forze e i propri mezzi; ma in questo caso il cuore rimane chiuso alla luce di Dio. Il Signore ama essere atteso e non lo si può attendere sul divano, dormendo. Infatti i pastori si muovono: «andarono senza indugio», dice il testo (v. 16). Non stanno fermi come chi si sente arrivato e non ha bisogno di nulla, ma vanno, lasciano il gregge incustodito, rischiano per Dio. E dopo aver visto Gesù, pur non essendo esperti nel parlare, vanno ad annunciarlo, tanto che «tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori» (v. 18).
Attendere svegli, andare, rischiare, raccontare la bellezza: sono gesti di amore. Il buon Pastore, che a Natale viene per dare la vita alle pecore, a Pasqua rivolgerà a Pietro e, attraverso di lui a tutti noi, la domanda finale: «Mi ami?» (Gv 21,15). Dalla risposta dipenderà il futuro del gregge. Stanotte siamo chiamati a rispondere, a dirgli anche noi: “Ti amo”. La risposta di ciascuno è essenziale per il gregge intero.
«Andiamo dunque fino a Betlemme» (Lc 2,15): così dissero e fecero i pastori. Pure noi, Signore, vogliamo venire a Betlemme. La strada, anche oggi, è in salita: va superata la vetta dell’egoismo, non bisogna scivolare nei burroni della mondanità e del consumismo. Voglio arrivare a Betlemme, Signore, perché è lì che mi attendi. E accorgermi che Tu, deposto in una mangiatoia, sei il pane della mia vita. Ho bisogno della fragranza tenera del tuo amore per essere, a mia volta, pane spezzato per il mondo. Prendimi sulle tue spalle, buon Pastore: da Te amato, potrò anch’io amare e prendere per mano i fratelli. Allora sarà Natale, quando potrò dirti: “Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo” (cfr Gv 21,17).

Carrón: «La sorpresa del Natale, vittoria contro le paure»

 «L’iniziativa audace che Dio ha preso con Maria ci raggiunge anche in questo Natale, rinnovando l’annuncio di una novità radicale». L'articolo del Presidente della Fraternità di CL sul "Corriere della Sera" del 23 dicembre
Julián Carrón
 
Caro Direttore, l’insicurezza esistenziale con cui l’uomo di oggi si trova a fare i conti così spesso, lo fa precipitare nella paura. Quante situazioni non può controllare con le sue forze! Era successo già al tempo del profeta Isaia: nell’imminenza di una guerra, la casa di Giuda cerca di assicurarsi l’alleanza di una potenza straniera, gli Assiri. Davanti alla paura la tentazione è sempre quella: affidarsi al potere, al più forte, perché ci liberi dallo stato di insicurezza in cui ci si trova. Ma i conti non tornano e la paura non viene meno. A questo punto, Dio prende l’iniziativa e si rivolge ad Acaz, re di Giuda, attraverso il profeta Isaia, per indicargli che quella non è l’unica strada, che ce n’è un’altra più sicura: affidarsi all’unico «potere» in grado di andare fino alla radice della paura e di sconfiggerla (cfr. Is 7,10-14). Quella via che noi giudicheremmo una astrazione diventa la più realistica. Il popolo d’Israele lo ha verificato una volta dopo l’altra nella sua storia.
Elia e Giovanni Gagini, "Adorazione dei magi", 1457. Via degli Orefici, Genova, l'immagine del Volantone di Natale di CLElia e Giovanni Gagini, "Adorazione dei magi", 1457. Via degli Orefici, Genova, l'immagine del Volantone di Natale di CL
Dio non proclama semplicemente di avere una passione per il destino dell’uomo: Egli interviene nella storia. Lo fa prendendo iniziative che possono anche sconvolgere situazioni che sembrerebbero già definite. Come nel caso di una giovane donna, Maria, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, Giuseppe (cfr. Lc 1,26-38). Potrebbe essere percepita come una interferenza indebita di Dio, che fa saltare i piani di due promessi sposi: in realtà è l’iniziativa che ogni uomo, consapevolmente o meno, attende, a cominciare da Maria: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te!» Chi non desidererebbe essere investito da questo sguardo pieno di tenerezza? È come se, all’annuncio dell’Angelo, Dio le avesse detto: «Solo una presenza può rispondere a tutta la paura del mondo e a tutta l’insicurezza degli uomini; io faccio percepire prima di tutto a te, faccio accadere in te questa presenza, la faccio vibrare dentro di te perché possa arrivare a tutti! Concepirai e darai alla luce un figlio e lo chiamerai Gesù».
Chi non desidererebbe essere investito da questo sguardo pieno di tenerezza? È come se, all’annuncio dell’Angelo, Dio le avesse detto: «Solo una presenza può rispondere a tutta la paura del mondo»
Con questa iniziativa assolutamente unica, Dio assicura a lei e a tutti gli uomini che non saranno più soli, né vittime della paura, che potranno sempre appoggiarsi a quella Presenza, in qualunque situazione vengano a trovarsi; di fronte a qualunque sfida, potranno non temere, perché potranno viverla nella compagnia con Lui: hanno trovato grazia presso Dio.

Ma questa iniziativa va accolta. La risposta non è per nulla scontata. Nemmeno quella di Maria. Nell’udire quelle parole si sarebbe potuta spaventare o essere talmente sopraffatta da voler scappare. C’erano di mezzo la ragione e la libertà di quella giovane donna. Maria si rende disponibile accettando quell’annuncio imprevisto e imprevedibile: «Avvenga per me secondo la tua parola».
Il momento più drammatico, tuttavia, deve ancora venire: è quando l’Angelo si allontana da lei. Perché quell’allontanarsi di Dio? Il Mistero non vuole imporsi prepotentemente, quasi si ritrae dalla scena per lasciare spazio alla sua libertà. Perché non glielo risparmia, ci domandiamo a volte sconcertati? Perché quell’annuncio non può essere subito passivamente, tantomeno imposto dall’esterno. È solo nella libertà che può diventare suo. E come è diventato suo? «Maria conservava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Da allora la Madonna ha dettato il metodo della vita, per affrontare tutte le circostanze. Per questa via emerge un io nuovo: un io con una autocoscienza nuova, non più schiacciato dalla paura, perché tutto dominato da quella Presenza. È una possibilità a portata di mano della libertà di Maria, così come è accessibile a ciascuno di noi, che siamo raggiunti oggi – attraverso incontri concreti, determinati – dall’annuncio del «Dio con noi».
Il Mistero non vuole imporsi prepotentemente, quasi si ritrae dalla scena per lasciare spazio alla sua libertà. Perché non glielo risparmia, ci domandiamo a volte sconcertati?
L’intervento del Mistero nella nostra esistenza non sconfigge la paura come per magia, ma investe la vita della Sua presenza, provocando la nostra ragione e la nostra libertà a riconoscerla. Solo chi la riconosce e vi si affida potrà verificare fino a che punto questa paura è vinta dalla Sua presenza. «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45).
Dio non ci risparmia la strada della verifica, come non l’ha risparmiata alla Madonna. La vittoria sulla insicurezza esistenziale e sulla paura avviene secondo un disegno che non è il nostro, ma avviene. L’iniziativa audace che Dio ha preso con Maria ci raggiunge anche in questo Natale, rinnovando l’annuncio di una novità radicale: «Il cristianesimo è una presenza dentro la tua esistenza, una presenza che assicura un cambiamento inimmaginabile, inimmaginabile» (don Giussani). Lo abbiamo visto testimoniato nella storia: non c’è ostacolo che tenga davanti alla Sua iniziativa: scetticismo, incapacità, malattia, circostanze.
La vittoria sulla insicurezza esistenziale e sulla paura avviene secondo un disegno che non è il nostro, ma avviene
Se accogliamo la sua Presenza, che ci raggiunge oggi attraverso un segno umano, si introduce in noi quel cambiamento. Non siamo più soli davanti agli imprevisti della vita. Come ha detto papa Francesco nei giorni scorsi, «il Natale porta cambi di vita inaspettati: l’Altissimo è un piccolo bimbo. Chi se lo sarebbe aspettato? Natale è celebrare un Dio inedito, che ribalta le nostre logiche e le nostre attese, una sorpresa, non una cosa già vista» (Udienza generale, 19 dicembre 2018).

Troverà anche oggi un cuore disponibile ad accoglierlo?

lunedì 9 luglio 2018

venerdì 1 giugno 2018

Massimo Borghesi spiega il pensiero di papa Francesco su gnosi e pelagianesimo

Il filosofo Massimo Borghesi, autore di innumerevoli studi sulla Chiesa contemporanea e su papa Francesco, il cui ultimo libro è dedicato proprio a lui, ha rilasciato un'intervista alla rivista spagnola Páginas Digital che qui riprendiamo. In essa spiega come pelagianismo e gnosticismo stiano attaccando la Chiesa dal suo interno.
Nella recente esortazione apostolica di Francesco, Gaudete et Exsultate, c'è un intero capitolo dedicato alla spiegazione dei pericoli del pelagianesimo e dello gnosticismo. Questa è una costante negli ultimi interventi del Papa. Perché nel pensiero di Bergoglio queste due antiche eresie sono associate alla mondanità?
Perché esprimono la secolarizzazione dentro la Chiesa, non fuori di essa. Il pericolo per la fede, oggi, proviene, secondo il Papa, non tanto e non semplicemente dalle ideologie mondane quanto dalla mondanizzazione interna alla Chiesa medesima. Il "mondo" è dentro la Chiesa e non semplicemente "fuori". In ciò Francesco riflette pienamente la persuasione di Henri de Lubac, uno dei suoi grandi maestri ideali. Scriveva de Lubac in Meditation sur l'Église: "Ma il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente, allorché tutte le altre sono vinte, alimentata anzi da queste vittorie, è quella che Dom Vonier chiamava 'mondanità spirituale'. Con questo noi intendiamo, diceva, 'un atteggiamento che si presenta praticamente come un distacco dall'altra mondanità, ma il cui ideale morale, nonché spirituale, non è la gloria del Signore, ma l'uomo e la sua perfezione. Un atteggiamento radicalmente antropocentrico; ecco la mondanità dello spirito'". Pelagianesimo e gnosticismo sono l'espressione di questa mondanità spirituale oggi. Il Papa ne parla ripetutamente. Nella Evangelii gaudium, ai paragrafi 93-97, nel suo discorso alla Chiesa italiana del 10 novembre 2015, nel capitolo secondo della Esortazione apostolica Gaudete et exsultate. Essi vengono richiamati anche nella Lettera Placuit Deo, del 22 febbraio 2018, ad opera della Congregazione per la dottrina della fede.
Perché gnosticismo e pelagianesimo costituiscono i due pericoli per il cristianesimo oggi?
Perché sono gli abiti mentali che impediscono la dimensione missionaria della Chiesa, la consapevolezza, che essa dovrebbe avere, di portare un dono di grazia di cui non ha merito, non è opera sua. Gnosi e pelagianesimo favoriscono, al contrario, il clericalismo, una pretesa di perfezione immanente dovuta al ragionamento o all'operare dell'uomo. Gnosi e pelagianesimo si oppongono alla grazia, al primato della Grazia. Francesco, che ha una sensibilità sociale fortissima, è, nella sua radice spirituale, un mistico. L'agire del cristiano nel mondo si fonda sull'incessante domanda, da parte dell'uomo, della Presenza di Dio.
Cosa sostengono invece gnostici e pelagiani?
Portano avanti un progetto che, in nome di Dio, è radicalmente antropocentrico. Dal punto di vista ignaziano cercano la propria gloria, non quella divina. Nella Evangelii gaudium si afferma, al n. 94: "Questa mondanità può alimentarsi specialmente in due modi profondamente connessi tra loro. Uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell'immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti. L'altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un élitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l'accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico. Non è possibile immaginare che da queste forme riduttive di cristianesimo possa scaturire un autentico dinamismo evangelizzatore".
Francesco afferma che lo gnosticismo è una delle ideologie peggiori. Che importanza ha questa denuncia? Il Papa sta rispondendo a tutto quel pensiero che attraversa la modernità e le sue "soluzioni idealiste" di un Cristo senza storia, senza carne?
Uno dei quattro principi, che costituiscono l'architettura del pensiero di Bergoglio, afferma: "La realtà è superiore all'idea". Questo fa comprendere quanto il Papa sia distante dall'ideologia idealistica. Per la gnosi, che costituisce l'essenza dell'idealismo, la fede dipenderebbe, oggi, dalla custodia della "retta dottrina" da parte di un'élite di ortodossi che vedono ovunque, nella Chiesa come nel mondo, semi di corruzione e di disfacimento. Solo essi mantengono, nel mondo perverso, la purezza della fede. Non si fa fatica a cogliere in questa pretesa "elitaria" la reazione dei tradizionalisti nella Chiesa odierna. Per questi zelanti, che non si mescolano con gli "impuri", tutta la Chiesa, dal Concilio Vaticano II in avanti, è segnata da un cammino inesorabile di decadenza. Solo essi rimangono, nell'ombra, a custodire la luce che tornerà a brillare. In Gaudete et exsultate Francesco afferma che "Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un'enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono "un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo" (n. 37). Nella Evangelii gaudium il Papa scrive che "In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è "sudore della nostra fronte".
Questa corrente di pensiero che conseguenze porta?
Lo dice il papa: "Ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di "quello che si dovrebbe fare" – il peccato del 'si dovrebbe fare' – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all'esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Chi è caduto in questa mondanità guarda dall'alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall'apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all'orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è autenticamente aperto al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l'aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un'apparenza religiosa vuota di Dio. Non lasciamoci rubare il Vangelo!" (n. 96-97).
Il Papa segnala che il pelagianesimo e il semipelagianesimo sono ancora presenti nella Chiesa: si parla di grazia, ma si pensa che tutti possano fare tutto. Qual è la traiettoria personale e intellettuale che porta il Papa a dare questo giudizio sul valore della grazia non rispettato?
Se la gnosi qualifica, oggi, la destra cattolica il pelagianesimo è un'eredità della sinistra. Un'eredità che oggi caratterizza la mentalità di tanti conservatori. Essa deriva dall'idea, corretta, che l'agire del cristiano porti un contributo di novità nel mondo. Un agire, certo, illuminato e guidato dalla Grazia. Epperò nei pelagiani la Grazia diviene un "presupposto", non una domanda. Essi partono dal presupposto che la fede garantisca esiti migliori, perfetti, sicuri, e, a partire da ciò, ne traggono un giudizio di condanna senza appello verso il mondo esterno. Dimenticano che ciò che sono e ciò che hanno non è loro "proprietà" ma un dono che ogni giorno deve essere domandato. Una fortuna di cui essere grati e non presuntuosi. Nel criticare questa pretesa, che si sposa con la posizione gnostica nel suo elitarismo critico verso la massa, Francesco si incontra pienamente con sant'Agostino. In Gaudete et exsultate scrive che "Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico. Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l'idea che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che 'non tutti possono tutto' e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant'Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e 'a chiedere quello che non puoi'; o a dire umilmente al Signore: 'Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi'. In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita. La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l'ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo".
Francesco cita il II Sinodo di Orange: tutto quel che può cooperare con la grazia è precedentemente dono della grazia, come se volesse sottolineare che anche la natura e la libertà sono grazia. Che valore ha un'affermazione del genere nel nostro contesto culturale ed ecclesiale?
Mi ha molto colpito la ripresa, da parte di Francesco, dei canoni del Concilio di Orange del 529 d.C. Era stata la rivista internazionale 30 Giorni, che, tra il febbraio 2008 e il settembre 2009, aveva pubblicato i canoni del Concilio. Bergoglio era allora un attento lettore di 30 Giorni. Quello che è certo è che Gaudete et exsultate mostra, in modo inequivocabile, l'anima "agostiniana" del Papa riguardo alla concezione della Grazia. Il "primear" della Grazia si chiarisce come un punto fondamentale del suo magistero. I suoi avversari che lo hanno accusato di essere un pelagiano, un gesuita molinista, un modernista che teorizza il primato della prassi, documentano, oltre che alla malafede, anche una profonda dose di ignoranza. Dio ci anticipa sempre: questo è l'insegnamento del Papa. Il "Dio sempre più grande" ci interpella ogni giorno, provoca i nostri sistemi, ideologie, chiusure. Apre i cuori di carne. Per questo non siamo giustificati dalle nostre opere. Come è detto in Gaudete et exsultate: "Il secondo Sinodo di Orange ha insegnato con ferma autorità che nessun essere umano può esigere, meritare o comprare il dono della grazia divina, e che tutto ciò che può cooperare con essa è previamente dono della medesima grazia: 'Persino il desiderare di essere puri si attua in noi per infusione e operazione su di noi dello Spirito Santo'. Successivamente il Concilio di Trento, anche quando sottolineò l'importanza della nostra cooperazione per la crescita spirituale, riaffermò quell'insegnamento dogmatico: 'Si afferma che siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di quanto precede la giustificazione, sia la fede, siano le opere, merita la grazia stessa della giustificazione; perché se è grazia, allora non è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6)'".
Dove si situa la possibilità, per la fede, di superare la tentazione gnostica e quella pelagiana?
Le rispondo con le parole che papa Francesco mi ha rilasciato in una intervista  e che ho riportato nel mio volume Jorge Mario Bergoglio, una biografia intellettuale: "Per me nell'Incarnazione c'è la debolezza e la concretezza del cattolico. Nell'Incarnazione si risolve il pelagianesimo e lo gnosticismo. Ambedue le eresie negano la debolezza di Dio o la forza di Dio. […] Certamente mi è sempre piaciuto andare all'Incarnazione per vedere la forza di Dio contro la forza, tra virgolette, pelagiana e la debolezza di Dio contro la 'forza' gnostica. Nell'Incarnazione si ha il giusto rapporto. Se noi leggiamo, per es., le Beatitudini o Mt 25, che è il protocollo con il quale saremo giudicati, troveremo questo: nella debolezza dell'Incarnazione si risolvono i problemi umani, le eresie. Qual è il punto più grande in cui si manifesta questa debolezza dell'Incarnazione? Efeso. Credo che Efeso sia la chiave per capire il mistero più grande dell'Incarnazione. Quando il popolo grida ai vescovi, all'entrata della cattedrale: 'Santa Madre di Dio!'. E' il momento in cui la Chiesa proclama Maria madre di Dio. Cosa vuol dire questo? C'è la debolezza e la fortezza nell'Incarnazione".

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